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Rimuovere gli ostacoli, promuovere i talenti: una riflessione sul tema della disabilità e del lavoro



Partiamo dalla fine: l’Accademia della Crusca definisce l’abilismo una forma di «discriminazione, pregiudizio o marginalizzazione nei confronti delle persone #disabili»; in altri termini, una qualsiasi limitazione fisica, professionale e cognitiva che si traduce in episodi di discriminazione e di esclusione. A mio avviso, l’abilismo è molto di più: assume la portata di un paradigma culturale, di un punto di vista sul mondo e sulla società.


La riflessione è nata dall’attivazione del progetto «OccupAzione» - le iscrizioni sono disponibili a partire dal 16 agosto – il cui intento è quello di promuovere l’integrazione dei cittadini disabili o a ridotta mobilità in “lavori socialmente utili nell’ambito dei servizi alla persona” – si legge nella nota. L’iniziativa è rivolta a tutti gli iscritti all’elenco della Legge 68/99. L’obiettivo del progetto mira a favorire l’accrescimento e lo sviluppo delle competenze lavorative dei soggetti coinvolti, così da consentire il loro inserimento nell’ambito dei servizi pubblici attivi sul territorio nazionale. Le mansioni previste spaziano dai lavori d’ufficio all’affiancamento e l’intrattenimento degli anziani ospitati in case di riposo o presso il proprio domicilio – a seconda degli enti aderenti.


La domanda sorge, dunque, spontanea: quali sono gli interventi sociali a favore di chi, le proprie competenze lavorative, le ha maturate in un percorso universitario in maniera non dissimile dagli «individui abili»? Chi si attiva in difesa dei professionisti affetti da disabilità, ostacolati da pregiudizi e politiche aziendali svantaggiose? Mi riferisco agli individui inseriti nelle liste di collocamento e impossibilitati a far carriera a causa di fattori limitanti: la sicurezza sul posto di lavoro, la presenza di infrastrutture accessibili per le persone con mobilità ridotta, la paura di assumere un dipendente «impegnativo» sul versante assicurativo. I problemi non finiscono qui.


Al giorno d’oggi, la definizione teorica di «disabilità» si fonda sui principi fondamentali di eguaglianza, dignità, non-discriminazione e autonomia individuale di coloro che, a questa società, hanno molto da offrire. E ci si aspetterebbe che la consapevolezza della diversità umana sia accompagnata da interventi pratici a favore dell’inclusione. Con inclusione, mi riferisco all’opportunità paritaria di sentirsi parte integrante della vita associata, indipendentemente dalle abilità fisiche e cognitive di partenza. Tuttavia, l’ostinata inettitudine di valorizzare chi si impegna e si è impegnato duramente per occupare una posizione di rilievo nei contesti della vita pubblica dimostra, ancora una volta, che il percorso è ancora lungo e complesso.


Insomma, siamo smaniosi di vivere in un mondo che si fonda sui principi di diversità e inclusione. Tuttavia, trasformiamo l’alterità in uno slogan, mai in una realtà.


«La promozione dei talenti» di una persona affetta da disabilità non dovrebbe limitarsi ai lavori che non tengono conto delle qualità e del background individuale. Credere che fotocopiare e organizzare scartoffie sia quanto di meglio un disabile possa offrire alla società significa marginalizzare chi è diverso da noi attraverso barriere socio-culturali. Muri che è giunto il momento di abbattere.


Perché l’identità individuale merita formazione, rafforzamento e senso di appartenenza. Perché le nostre liste di collocamento sono piene di professionisti con la P maiuscola che scalpitano per dimostrare i propri talenti e la propria ricchezza.


E io credo che la ricchezza di un Paese non si limiti a un gioco di parole o a uno slogan accattivante, ma si fondi sul superamento delle barriere sia fisiche sia mentali.


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