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La disabilità sta negli occhi di chi guarda



Tante micro-rivoluzioni si trasformano in una macro-rivoluzione. Voragini nell’asfalto da sistemare, marciapiedi resi #accessibili, rotonde ampliate e nuove zone ciclopedonali consegnate ai cittadini per promuovere la #mobilitàsostenibile (e non solo). Nella città ideale – quella in cui le #barriere architettoniche sono ormai un lontano ricordo – gli spazi senza ostacoli sono fruibili da tutti i cittadini. Nessuno escluso. Tuttavia, la strada che conduce al raggiungimento delle pari opportunità è ancora lunga e in salita.


Qualche giorno fa, mi è capitato tra le mani l’articolo-intervista pubblicato sul Corriere: «La mia lotta contro le barriere architettoniche e la burocrazia». Sono le parole di Vincenzo Bracci – 83 anni, ex cantante e amico di Dori Ghezzi. Vi si legge l’amara rassegnazione di un invalido al 100% costretto a combattere una disperata battaglia contro un Comune che, pur schierandosi «a parole» dalla parte dei più deboli e degli emarginati, ha per lungo tempo ignorato le richieste d’aiuto di un cittadino.


Lì dove passavano le rotaie del tram non è possibile procedere con la carrozzina, l’appartamento di Bracci è una trappola costituita da ostacoli architettonici che gli impediscono di chiudere la porta del bagno o di uscire in terrazzo, e anche i servizi comunali messi a disposizione per gli invalidi vengono progressivamente ridotti – se non addirittura soppressi. Sulla carta, si è tutti d’accordo sul fatto che le città – in quanto «bene pubblico» - debbano garantire ai cittadini la possibilità di autodeterminarsi in maniera scevra da favoritismi e abilismi.


E in effetti, gli spazi urbani privi di barriere architettoniche incrementano le chance di condurre un’esistenza appagante.


L’accessibilità è sinonimo di partecipazione, di benessere, di emozioni, di socializzazione, di movimento e di interazione.


E non è ammissibile, nel 2022, condannare ampie categorie di invalidi a un vagabondaggio estenuante e infruttuoso tra i corridoi di un labirinto burocratico costituito da cavilli, norme e regolette stratificati e complessi. Dobbiamo liberarci dal concetto di progettazione basata sulle funzioni e sulle abilità dell’«uomo standard», perché non esiste al mondo una persona che sia uguale a un’altra. Esiste «l’uomo reale» con le sue diversità, le sue debolezze, i suoi talenti e il suo status fisico in continuo mutamento.


Prima di concludere questa riflessione, vorrei ricondurre l’attenzione dei miei lettori sul significato della parola «barriera». Sbaglia chi crede che gli ostacoli abbiano una natura esclusivamente fisica, tangibile e architettonica. La «barriera» non è soltanto un elemento costruttivo che impedisce agli invalidi di autodeterminarsi (scale, marciapiedi, gradini, pavimentazioni e chi più ne ha, più ne metta). La «barriera» è anche sensoriale, di tipo uditivo o visivo. Un aspetto, quest’ultimo, che viene di frequente ignorato o trascurato da chi di dovere.


Di conseguenza, abbattere gli ostacoli significa innanzitutto assicurare pari possibilità d’azione per prevenire qualsiasi forma di discriminazione basata sull’abilità dei cittadini. E viene quasi da pensare che la vera invalidità sia negli occhi di chi guarda – o per meglio dire, di chi è cieco e sordo di fronte alla sofferenza, alle difficoltà e alle battaglie altrui.

Nella speranza di un mondo che impari a riconoscere il valore della diversità,

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